Toglietemi tutto, ma non lo smart working: l’Osservatorio del PoliMi presenta la sua ricerca
Dallo smart working non si torna più indietro. Lo dice l'Osservatorio del Politecnico di Milano che prevede una crescita del fenomeno anche per il 2025. Chi torna in ufficio lo fa perché gliel'ha chiesto l'azienda.
Smart Working, che passione, soprattutto nelle grandi aziende, ma anche nelle piccole e medie si fa fatica a tornare stabilmente in ufficio, nonostante lo stop imposto dalla legislazione nazionale. A dirlo, sono i risultati di una ricerca promossa dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, presentata nei giorni scorsi durante il convegno Tra Smart Working e Return-to-Office: orientarsi nel labirinto della flessibilità.
Stabile, secondo l’indagine, il numero complessivo di lavoratori che prediligono il remoto. Il calo rispetto al 2023 è infatti inferiore all’uno per cento. Quest’anno in smart ci sarebbero perciò 3,55 milioni rispetto ai 3,58 milioni del 2023.
Rispetto allo scorso anno, sarebbe però cresciuto di oltre un punto e mezzo il numero di lavoratori a distanza nelle grandi aziende (pari oggi a quasi due milioni).
Il dato indicherebbe un ritorno pressoché simile a quello toccato durante la pandemia. Al contrario, nelle Pmi si è scesi a 520mila lavoratori dai 570mila dell’anno scorso, mentre si registra una situazione sostanzialmente stabile sia nelle microimprese, dove i lavoratori in smart sarebbero nel 2024 625mila contro i 620 mila del 2023 sia nella Pubblica amministrazione, con 500mila smartworkers di quest’anno e i 515mila del 2023.
Numeri a parte, ciò che più colpisce è il giudizio positivo pressoché unanime espresso dalla forza lavoro oggetto della ricerca sullo smart working: ben pochi di loro vi rinuncerebbero.
Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, il 73% dei lavoratori che se ne avvalgono si opporrebbe se la propria azienda eliminasse questa forma di flessibilità. Nello specifico, il 27% penserebbe seriamente di cambiare lavoro, il 46% si impegnerebbe per far cambiare idea al datore di lavoro. Sempre secondo i lavoratori, per cercare di compensare almeno in parte la mancata possibilità di lavorare da remoto, l’azienda dovrebbe offrire una maggiore flessibilità oraria o aumentare lo stipendio di almeno il 20%.
Anche a causa del favore netto manifestato dagli intervistati verso il lavoro a distanza, la ricerca ne prevede una crescita ulteriore nel 2025, pari al 5% in più. Il prossimo anno gli smartworker dovrebbero toccare dunque quota 3,75 milioni. A spingere su questa direzione saranno soprattutto le grandi imprese (35%) seguite dalle PA (23%) e dal 9% delle PMI.
Detto in altri termini, dallo smart working non si torna più indietro, soprattutto nelle organizzazioni più grandi e nella pubblica amministrazione.
La verosimiglianza di questa previsione sarebbe confermata anche dai risultati della ricerca dedicati ai motivi che hanno spinto i lavoratori a tornare in presenza. Secondo l’Osservatorio dell’università milanese, solo il 19% lo ha fatto per scelta personale, il 23% perché ha una nuova mansione non svolgibile da remoto, mentre per la grande maggioranza (58%) è stata una decisione presa dall’azienda.
In definitiva, dichiarare l’avvenuta estinzione dello smart working è stato un errore, ha spiegato Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working. Semmai, laddove si è tornati in ufficio soprattutto nelle realtà più piccole lo si è fatto perché «questo modello organizzativo è ancora visto, prevalentemente, come uno strumento occasionale di conciliazione tra vita privata e lavorativa e non come una vera e propria innovazione nell’organizzazione del lavoro», ha aggiunto il ricercatore.
Nelle realtà più grandi è invece evidente che la flessibilità è considerata «rilevante per attrarre e trattenere talenti», considera Fiorella Crespi, Direttrice dell’Osservatorio Smart Working.
Per questo motivo, si stanno semmai studiando altri modelli che permettano di «ampliare il numero di persone che possono fruire di forme di flessibilità e, allo stesso tempo, accedere ad un più ampio bacino di competenze necessarie», aggiunge. Si parla ad esempio sempre più spesso di settimana corta, al momento adottata da una quota ancora molto bassa di aziende, precisa la direttrice dell’Osservatorio, che si sofferma anche sul fenomeno dell’International Smart Working, praticato dal 29% delle grandi imprese, ossia da quasi un’azienda su tre.
Nel processo di cambiamento dei modi di lavorare nel futuro conterebbe molto anche l’atteggiamento dei manager. Secondo la ricerca del Politecnico, anche in questo caso contano le dimensioni dell’azienda: in quelle grandi i capi sarebbero più sensibili alle richieste di lavoro agile da parte dei collaboratori. Prevarrebbe invece lo scetticismo nelle Pmi e nel settore pubblico, mentre la filosofia dello smart working come vero e proprio approccio strategico per tutta l’organizzazione sarebbe presente solo nel 33% delle grandi imprese, nel 20% delle PA e nell’8% delle PMI.
In maniera analoga, anche l’attenzione all’organizzazione degli spazi di lavoro e alla loro sostenibilità ambientale sarebbe in crescita, ma il cammino da percorrere è ancora piuttosto lungo.
Comunque evolveranno le aziende, di certo alle più lungimiranti spetterà il compito di spianare la strada alle altre.
Al momento, il riconoscimento dell’Osservatorio assegnato alle organizzazioni che si sono distinte per capacità di innovare le modalità di lavoro grazie ai loro progetti di Smart Working sono state per il 2024 Carrefour Italia, INPS e Vaillant Group Italia.
Presente all’iniziativa anche Great Place to Work Italia, che a sua volta ha realizzato una ricerca sul tema smart working, ascoltando il parere espresso da quasi 21mila lavoratori di 33 eccellenti ambienti di lavoro italiani. In questi ultimi, quasi 6 realtà su 10 (56%) adottano un modello ibrido, con una differenza del +37% nel confronto con la media italiana, dove domina ancora il lavoro in presenza (74%).
«Per le aziende la scelta tra il lavoro full-smart e il lavoro ibrido rappresenta una decisione che può influenzare profondamente la produttività, la soddisfazione dei collaboratori e la cultura aziendale», ha detto Alessandro Zollo, Ceo di Great Place to Work Italia.
Secondo la loro analisi, il modello vincente è quello ibrido: «La voce delle persone è stata molto chiara», ha aggiunto Zollo, che parla di una scelta pressoché a monte del modello di business che si vuole seguire, soprattutto in tempi come quelli di oggi in cui, conclude il Ceo di Great Place to Work Italia, «si sentono echi di restaurazione abbastanza tipici dell’incapacità di adattamento ad un mondo che cambia, e lo fa molto velocemente».