Giovani in fuga dall’Italia: i laureati sono meno di un terzo

L’esodo silenzioso che coinvolge tutte le classi sociali. Fondazione Nord Est fa il punto su chi parte e perché, tra necessità e scelta

L’emigrazione giovanile dall’Italia non è solo una questione di “cervelli in fuga”. Tra il 2011 e il 2023, oltre 550mila giovani italiani hanno lasciato il Paese, ma meno di un terzo di loro è laureato. La maggior parte, infatti, ha al massimo un diploma di scuola superiore o persino un livello di istruzione più basso. Un fenomeno che sfida lo stereotipo dell’emigrazione come scelta elitaria e dimostra come a partire siano anche i giovani provenienti da contesti svantaggiati.

A evidenziarlo è Fondazione Nord Est, che analizzate le condizioni di partenza dei giovani expat italiani, ha individuato due profili principali:
Gli svantaggiati o “emigrati per necessità”: rappresentano il 28% degli intervistati. Provengono da piccoli centri, hanno un tenore di vita dichiarato nella media e genitori con basso livello di istruzione, spesso operai o pensionati. Questi giovani lasciano l’Italia principalmente in cerca di migliori opportunità di lavoro (26,2%) o di una qualità della vita più alta (23,2%).
Gli avvantaggiati o “emigrati per scelta”: costituiscono il 23% del campione. Provengono da contesti familiari più benestanti, spesso dalle aree centrali delle grandi città, e hanno genitori laureati con posizioni professionali elevate come dirigenti o impiegati. Per loro, la spinta principale è rappresentata dalle opportunità di studio o formazione (29,6%) e dalle migliori prospettive lavorative (21,0%).
Il restante 49% dei giovani expat proviene da condizioni intermedie tra i due estremi. Complessivamente, oltre un quarto dei giovani italiani lascia il Paese per necessità economiche o lavorative, mentre quasi un quarto lo fa per scelta personale e ambizione.

Le condizioni di partenza influenzano fortemente i percorsi professionali dei giovani expat. Tra chi emigra per scelta, è doppia la quota di coloro che frequentano corsi universitari o post-universitari o ottengono borse di ricerca rispetto a chi parte per necessità. Al contrario, tra gli emigrati per necessità è più alta la percentuale di chi resta senza occupazione, sebbene questo dato rimanga comunque inferiore rispetto a quello dei giovani rimasti in Italia.

Anche gli sbocchi professionali riflettono le differenze di background: tra chi è partito da una condizione di vantaggio, il 23,1% svolge una professione intellettuale e il 40,2% ha un impiego impiegatizio, mentre tra chi ha lasciato l’Italia per necessità, è maggiore la quota di operai specializzati o semi-specializzati (21,6%), di lavoratori nei servizi (17,6%) o con impieghi non qualificati (8,1%).

Un dato particolarmente significativo riguarda il fatto che quasi la metà di chi emigra per necessità svolge all’estero mansioni per cui le imprese italiane denunciano carenza di manodopera, come tecnici, operai specializzati o lavoratori non qualificati. In termini numerici, si tratta di oltre 130mila giovani, la cui assenza incide sulle condizioni operative delle aziende italiane.

Il fenomeno pone una sfida urgente: l’Italia non perde solo talenti altamente qualificati, ma anche forza lavoro essenziale per numerosi settori economici. Per affrontare questa emorragia di competenze, le imprese italiane devono ripensare modelli organizzativi e di governance che siano più attrattivi per le nuove generazioni, creando condizioni di lavoro più competitive e inclusive.

Segui la diretta di: