
Osservatorio BenEssere Felicità: il welfare aziendale conta, ma non basta
Il 60% dei lavoratori lo considera determinante per la felicità, ma solo il 13% vede reali programmi di supporto alla genitorialità e il 10% al caregiving. Cresce il divario tra aspettative e realtà
Come sta cambiando il welfare aziendale? A scattare una fotografia aggiornata della situazione nel nostro Paese è il 5° Rapporto dell’Osservatorio BenEssere Felicità, realizzato con il supporto tecnico di Up Day. Fra i primi dati annunciati, uno spicca su tutti: il 60% dei lavoratori riconosce il welfare come fattore di felicità, ma solo il 34% lo considera un criterio per cambiare azienda. L’Italia, intanto, segna un calo generale del benessere rispetto al 2024, con un indice di felicità lavorativa medio di 3.09 su 5 (contro il 3.24 dell’anno precedente).
Le differenze generazionali sono evidenti: la Gen Z è la più soddisfatta (3.34), seguita dai Baby Boomers (3.31), Millennials (3.27) e Gen X (3.21). Le donne superano gli uomini (3.28 vs 3.23), mentre i lavoratori autonomi si dichiarano più felici rispetto ai dipendenti (3.40 vs 3.22).

L’Osservatorio registra anche la tendenza degli italiani a considerare meno pressante l’idea di cambiare lavoro. Il 59,9% dei lavoratori non vuole cambiare impiego nei prossimi 12 mesi (nel 2024 era il 55%). La quota di chi vuole cambiare azienda rimane stabile al 24%, mentre cala chi punta a un cambio di professione (17% contro il 21% dell’anno scorso).
«Quest’anno abbiamo visto che rallenta lievemente la Great Resignation» spiega Elisabetta Dallavalle, Presidente dell’Associazione Ricerca Felicità. «Tra i fattori chiave nella scelta di un nuovo lavoro resta in testa lo stipendio, che passa dal 42% al 48%, con un distacco netto rispetto alla flessibilità (22%) e alle opportunità di crescita (21%). Scende l’interesse per un welfare aziendale migliore, dal 17% al 13%, mentre lavorare per un marchio noto rimane l’ultima priorità».

Quando si tratta di valutare l’impatto del welfare aziendale sulla felicità lavorativa, le opinioni cambiano in base a generazione e territorio. I Millennials sono i più convinti della sua utilità (3.66), seguiti da Baby Boomers (3.61), Gen Z (3.57) e Gen X (3.53). Geograficamente, il Sud e le Isole attribuiscono il valore più alto al welfare aziendale (3.71), mentre il Centro chiude la classifica con 3.50.

Secondo Mariacristina Bertolini, Vicepresidente e DG Up Day, la percezione del welfare aziendale sta cambiando: «Questi dati ci spingono a riflettere su una nuova grammatica del welfare. Forse c’è stato un eccesso di aspettative: il welfare privato non può sostituire quello pubblico, che nel 2022 valeva 650 miliardi, contro i 3 miliardi del welfare aziendale. Paradossalmente, il welfare è più apprezzato nelle aree dove è meno diffuso».
Solo il 45% dei lavoratori vede il welfare come parte integrante del benessere aziendale, mentre il 18% dichiara di non riceverne alcun beneficio. Tra le carenze più evidenti emergono il supporto alla genitorialità (13%) e il caregiving (10%), temi ancora poco considerati dalle aziende.
«Il welfare non può più limitarsi a un pacchetto di benefit», conclude Bertolini. «Deve evolversi verso un modello che metta al centro il ciclo di vita, le esigenze reali, la flessibilità e il supporto alla vita personale».
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