Tutti pazzi per i fringe benefit, un po’ meno nelle aziende medie e piccole

Cresce il ricorso a strumenti di sostegno alla retribuzione dei dipendenti sotto forma di beni e servizi: lo sostiene una ricerca condotta da HR Capital su un campione di 40 aziende italiane e di altri Paesi Ue.

Una ricerca di HR Capital ha analizzato la diffusione dei fringe benefit in un campione di 40 aziende italiane e di altri Paesi dell'Unione Europea

L’impiego dei fringe benefit rappresenta una delle politiche maggiormente applicate dalle aziende per integrare le retribuzioni dei dipendenti, eppure il loro alto valore strategico non ha ancora raggiunto la piena diffusione. A sostenerlo, è una ricerca condotta da HR Capital, la società consociata di De Luca & Partners leader nei servizi per la gestione e per l’amministrazione del personale in outsourcing, che ne ha analizzato il tasso di adozione.

Più nel dettaglio, lo studio ha coinvolto 40 aziende, di cui il 70% italiane. Il restante 30% era formato da imprese aventi la sede principale in altri Paesi dell’Unione Europea. Tra i risultati più rilevanti è emerso che il 60% del panel, costituito in prevalenza da grandi realtà strutturate, ha integrato i fringe benefit nelle proprie politiche retributive, anche in sinergia con i programmi di welfare aziendale.

Il restante 40% del campione mostra, invece, una maggiore esitazione nell’adottare questi strumenti (erogati in massima parte sotto forma di beni o servizi) a causa del costo aggiuntivo generato, che, nonostante il regime fiscale agevolato, rimane rilevante soprattutto per le piccole e medie imprese.

Rispetto al 2023, si evidenzia così un innalzamento del 10% delle imprese che hanno introdotto o implementato la loro politica retributiva attraverso la concessione di fringe benefit, che si è concretizzata, nella maggior parte dei casi, nell’assegnazione ai propri dipendenti di auto aziendali a uso promiscuo o nel riconoscimento di coperture assistenziali mediante la stipula di polizze assicurative.

Una ricerca di HR Capital ha analizzato la diffusione dei fringe benefit in un campione di 40 aziende italiane e di altri Paesi dell'Unione Europea
Andrea Di Nino

Ad Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro e collaboratore di HR Capital, il compito di commentare i risultati della ricerca: «I dati evidenziano una tendenza di crescita nell’uso dei fringe benefit, seppur in minima misura, favorito anche dalle recenti modifiche normative che hanno incrementato i limiti di esenzione. La loro potenziale riconferma, prevista nella bozza del DDL Bilancio 2025, lascia presagire un’ulteriore diffusione dello strumento nel prossimo futuro».

L’innalzamento della soglia di esenzione a 2.000 euro per i dipendenti con figli a carico costituirebbe tuttavia un ostacolo nel conferimento dei fringe benefit soprattutto per le piccole e medie imprese. Secondo Di Nino, infatti, proprio in queste ultime «la procedura di distribuzione e reperimento delle dichiarazioni attestanti la presenza di figli a carico non è sempre semplice, e di conseguenza scoraggia le aziende dall’adozione dei fringe benefit».

Il quadro normativo di riferimento, rappresentato dall’articolo 51 del Testo unico delle imposte sui redditi, stabilisce per i compensi erogati sotto forma di fringe benefit un particolare regime di esenzione fiscale e contributiva, ponendo nel limite di 258,23 euro la soglia di esenzione, al superamento della quale tali fringe benefit entrano a far parte della retribuzione imponibile del lavoratore beneficiario per l’intero ammontare erogato.

Negli ultimi anni, tale disposizione ha subito molteplici revisioni: in particolare, da ultimo, la Legge di Bilancio 2024 (L. 213/2023) ha previsto l’innalzamento della soglia di esenzione del valore dei fringe benefit complessivo entro il limite di 1.000 euro, innalzato a 2.000 euro, come si vedeva poco fa, per i lavoratori con figli fiscalmente a carico.

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