L’IA sul lavoro è nemica della parità di genere? Dipende. La visione di Asvis e Flowerista
L'Intelligenza artificiale può essere nemica della parità di genere perché per utilizzarla al lavoro le donne desiderano prima ricevere adeguata formazione.
Sul cammino della parità di genere si incontrano, si sa, molti tipi di ostacoli. Uno dei più recenti sarebbe rappresentato dall’uso dell’intelligenza artificiale al lavoro. Lo sostiene uno studio scientifico citato dall’Economist e ripreso dall’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. L’importante organizzazione nata per sensibilizzare gli italiani sugli obiettivi dell’Agenda 2030 promossa dalle Nazioni Unite invita però a guardare la la questione sotto un’altra prospettiva.
Le donne che lavorano sarebbero infatti più diffidenti nei confronti in particolare di ChatGPT perché la vedrebbero più come una fonte di distrazione che come uno strumento utile per le loro mansioni. Se adeguatamente formate sarebbero al contrario pronte ad utilizzarla esattamente come fanno i loro colleghi uomini.
A riprova di questa tesi, l’articolo dell’Asvis esamina incrociandoli vari studi internazionali, partendo proprio dal paper Applying AI to rebuild middle class jobs” dell’economista David Autor, citato dal settimanale britannico, che esorta a considerare la sparizione probabile di una serie di professioni esercitate dalla classe media come un’opportunità per la riduzione delle diseguaglianze tra i lavoratori.
Al momento, certo, le persone più interessate ad apprendere rapidamente i segreti di ChatGPT and co sembrano essere soprattutto «i giovani di sesso maschile, con poca esperienza e un alto tasso di raggiungimento degli obiettivi», scrive l’Asvis.
Una fotografia del genere emergerebbe da un «sondaggio condotto da Anders Humlum dell’Università di Chicago ed Emilie Vestergaard dell’Università di Copenhagen», si legge ancora. Lo studio avrebbe infatti analizzato «l’utilizzo di ChatGPT in ambito lavorativo su un campione di 100mila lavoratori e lavoratrici danesi, in 11 professioni diverse, tra cui giornalismo, sviluppo di software e insegnamento».
Emblematici i risultati, che parlano di soltanto «un terzo delle insegnanti donne del campione» che utilizza l’IA in classe contro circa la metà dei colleghi uomini.
Analogo divario sarebbe confermato anche «da uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bis)», prosegue l’Asvis, che si sofferma sui dati emersi da un paper pubblicato lo scorso giugno sull’utilizzo dell’IA negli ultimi dodici mesi. Ebbene, gli uomini che se ne sono serviti sarebbero la metà del campione contro poco più di un terzo delle donne.
La maggiore sfiducia femminile verso le chatbot non avrebbe niente a che fare con differenze demografiche o economiche, aggiunge ancora l’articolo, tornando alla ricerca sul campione danese.
Semplicemente, «secondo Humlum e Vestergaard» le donne desiderano più degli uomini utilizzare l’IA «previa formazione». Di qui la domanda che si pone l’Asvis: «Basterebbe quindi una maggiore attenzione delle aziende a fornire alle lavoratrici le competenze giuste per incentivarle ad utilizzare l’AI per colmare questo divario? O ci sono cause più profonde?».
Citando l’agenzia di consulenza McKinsey, l’Asvis cerca di rispondere all’interrogativo soffermandosi sui dati di una ricerca norvegese dedicata agli studenti che frequentano una prestigiosa scuola di economia nel Paese scandinavo. Anche in questo caso, la percentuale di ragazze che utilizzano ChatGPT è nettamente inferiore a quella dei ragazzi.
Approfondendo meglio, si sarebbe però notata un’apparente anomalia. Agli esami di ammissione alla scuola, sarebbe infatti risultato evidente che «il gap rifletteva i comportamenti delle donne con prestazioni accademiche medio-alte. In altre parole – prosegue l’articolo dell’Asvis – le ragazze con prestazioni accademiche basse avevano le stesse probabilità degli uomini a utilizzare l’AI».
Insomma: ChatGPT piace o no alle donne che lavorano? L’Asvis ribadisce, utilizzando stavolta il parere di Danielle Li, del Massachusetts institute of technology (Mit), che sostiene che il sondaggio norvegese «non prova che utilizzo di ChatGPT da parte degli uomini si traduca in uno studio di migliore qualità o più produttivo». Al contrario, al momento la tecnologia generativa sembra essere «poco più di un “gioco digitale” e forse le ragazze», conclude lo studioso, sarebbero semplicemente «più brave a evitare di distrarsi».
E d’altra parte è pur vero che giocando s’impara: lo sanno bene in Flowerista, la società benefit inserita tra le FAB50 di GammaDonna, che a inizio estate hanno lanciato “Prompt’n’Play”, «il gioco di carte con AI assistant, che permette di imparare a dialogare meglio con l’AI, sfruttando il divertimento e i meccanismi di gioco tipici di una sfida a carte», scrive la founder Sara Malaguti. Ad idearlo, una giovane digital manager (Anna Iorio) con il suo team, che stanno per metterle in vendita, come scrive Malaguti, «a tempo di record».
Previsto invece il 10 settembre il Mastermind filosofico – letterario, promosso da Flowerista con la collaborazione di Chiara Sinchetto, «per riflettere sui futuri possibili in compagnia di “macchine sapiens”», si legge ancora.
L’approccio di Flowerista parrebbe infine confermare quanto sostenuto dall’Asvis, visto che, giusto a chiusura post, Sara Malaguti annuncia l’avvio durante l’autunno di «progetti pilota per introdurre la Gen AI in alcune aziende clienti”, chiamandolo “AI readiness”».
Insomma, le donne che lavorano amano l’IA, purché le faccia crescere davvero.